di Madre Laura Biondo
Superiora
generale Istituto Figlie di San Camillo
Questo contributo
vuole essere un apporto alla riflessione sul modo di testimoniare il carisma
camilliano nei luoghi di cura, oggi. Si tratta di richiamare il senso del
“carisma” della VC camilliana, e quindi dire come le Religiose camilliane sono
chiamate ad esprimerlo oggi nei luoghi di cura, in una società secolarizzata. I
due punti da raccordare sono il “carisma” camilliano e il mondo della salute di
oggi.
Tutti i carismi
della Chiesa nascono dal cuore di Dio che “chiama” alcuni suoi figli e figlie
ad esprimere qualcosa della sua “cura” per l’umanità. La missione perciò che
scaturisce dal carisma ha origine in Dio e la persona è chiamata ad accogliere
e assimilare il sentimento di Dio e “testimoniarlo”, ossia esprimerlo, attuarlo
nei confronti dei destinatari della missione.
Il progresso
tecnico scientifico applicato alla medicina, in questi ultimi decenni ha fatto
passi da gigante. La medicina scientifica ha ampliato il concetto di
“salute-malattia”, vedendolo articolato su una pluralità di dimensioni:
organica, psichica, sociale e spirituale. Sicché si parla ormai di medicina
olistica o psicosomatica, che comprende quindi la globalità della persona
umana. E il soggetto umano nella sua interezza è nel “mal-essere” e non
soltanto una sua dimensione.
Tuttavia a tale
progresso non ha corrisposto un’adeguata attenzione alla dimensione
propriamente umana del malato. Il punto critico della medicina occidentale oggi
sta, appunto, nella scarsa “umanizzazione”. Gli operatori sanitari, oggi più
che mai, “non hanno tempo” di ascoltare il malato più di tanto… Molto si parla
e si scrive su questo fenomeno, ma ancora deboli sono i rimedi.
In questo
intervento, partendo dall’esperienza dell’Istituto delle Figlie di San Camillo,
mi limiterò a proporre qualche spunto di riflessione sul contributo specifico
che la Vita Consacrata, chiamata a prendersi cura degli ammalati, offre nel
processo di “umanizzazione” dell’arte medica e infermieristica di oggi.
Se
tutti gli operatori sanitari, credenti e non credenti, sono sollecitati ad
accrescere l’attenzione a questo fattore, quale potrà essere il tipo di
“umanizzazione” che offre chi è “consacrato” attraverso una professione di vita
religiosa, a questo servizio? Qual è il “proprium” di umanizzazione che
proviene dalla persona “consacrata”?
Parlando della professione religiosa il Concilio
Ecumenico Vaticano II afferma esplicitamente che il fedele con voto si “obbliga
all'osservanza dei tre predetti consigli evangelici, egli si dona totalmente a Dio sommamente amato, così
da essere con nuovo e speciale titolo destinato al servizio e all'onore di Dio
... e viene consacrato più
intimamente al servizio di Dio » (LG
44a). La vita religiosa, dunque, nella sua essenza è un
donarsi totalmente a Dio e dedicarsi pienamente al suo servizio. Nel Perfectae caritatis si ribadisce lo
stesso concetto: «La vita religiosa è innanzitutto ordinata a far sì che i suoi
membri seguano Cristo e si uniscano a Dio con la professione dei consigli
evangelici» (n. 2e). «I membri di qualsiasi Istituto ricordino anzitutto di
aver risposto alla divina chiamata con la professione dei consigli evangelici,
in modo che essi, non solo morti al peccato, ma rinunziando anche al mondo, vivano per Dio solo. Tutta la loro
vita, infatti, è stata posta al servizio di Dio» (n. 5a).
Dialogo e
umanizzazione
Oggi le scienze
del linguaggio hanno dimostrato quanto la “umanizzazione” dell’individuo
dipenda dalla comunicazione interpersonale. L’io prende coscienza della propria
identità davanti ad un “tu”. E’ l’altro/l’altra che sveglia l’autocoscienza
dell’io. Ciò avviene appunto nell’incontro attraverso l’ascolto e la parola.
Per tale via si scopre che la struttura antropologica del soggetto umano è
“dialogica”. Il bambino cresce e matura la sua identità attraverso il rapporto
con la mamma, con il papà, con gli altri membri della famiglia.
Ma ciò vale, in
maniera diversa, anche dell’adulto: è solo la “compagnia”, la frequentazione
degli altri, la partecipazione alla vita comunitaria e sociale che consente
all’uomo di maturare nella percezione del sé, che gli consente anche di
conoscere e sviluppare le sue potenzialità. La chiusura su se stessi è quanto
c’è di più deleterio per lo sviluppo e il mantenimento d’una personalità
adulta, matura, capace d’inserirsi in maniera costruttiva nel tessuto della
vita umana.
Il dialogo
con la persona inferma
Ci sono però
circostanze della vita che possono impedire o comunque ostacolare questo
dinamismo di comunicazione. Situazioni nelle quali l’individuo rischia di
tornare a chiudersi dentro di sé. Le ragioni possono essere le più varie -
solitudine, isolamento forzato, emarginazione, insuccessi, problemi psichici o
neurologici, disgrazie, lutti, ecc. Anche la malattia organica provoca
ripiegamenti egocentrici, per il semplice fatto, direbbero certi studiosi della
fenomenologia, che essa “chiama all’attenzione”, ossia ad essere “attenti a
sé”, per potersi curare. Ogni patologia d’una certa gravità tende a deteriorare
profondamente lo spazio interiore del soggetto. Tutto diventa problematico,
confuso. Il futuro pare sbarrato, né si riesce a progettare qualcosa. E’ tutto
un turbinio di pensieri, di preoccupazioni, di paure che si abbattono
sull’individuo. I “perché” si susseguono, l’angoscia può invadere l’anima,
l’insicurezza proietta la vita verso un vuoto di senso...
Come reagire,
come rispondere, da parte di chi è chiamato a “prendersi cura” di questa persona?
Qui si vede chiaramente che l’atto medico o infermieristico non può ridursi
alla prestazione sanitaria. Perché, come ho già accennato, la malattia altera
la persona umana nella sua interezza: corpo e spirito, dimensione organica e
dimensione psichica, relazionale, spirituale.
Forse il
richiamo al comportamento di una mamma con il suo piccolo può aiutare a capire:
il neonato, dicono gli esperti, dispone di un apparato predisposto per la messa
a punto della visione e comprensione della realtà esterna, ma da solo è
inadeguato ad attuarlo, necessita della mediazione empatica della madre. Essa
sa accogliere le esigenze del bambino e rispondervi adeguatamente.
Non accade
qualcosa di simile anche all’adulto quando è agitato e preoccupato, quando una
grave paura o una malattia seria incombe su di lui e avverte prepotente il
bisogno di confidarsi, né sempre riesce ad esprimersi correttamente? In tal
caso l’altro, se davvero l’ascolta - cioè accoglie quello stato d’animo,
quelle apprensioni, né si affretta a voler per forza capire e a capire tutto,
né lo blocca con un giudizio, con una sentenza che ha la pretesa d’una
interpretazione esatta - in tal caso l’altro, dicevo, costituisce una sorta di
“cassa di risonanza” che contiene la folla d’emozioni, di sentimenti, di paure
che hanno invaso l’animo del sofferente. E questi, pian piano, un po’
s’acquieta: quell’ascolto gli ha consentito di organizzare in forma nuova le
sue emozioni, il suo mondo interiore, aprendolo ad un futuro di senso e di
speranza. Proviamo ad applicare questo meccanismo altamente umanizzante alla
fede cristiana.
In che modo
questo processo può esser letto nella fede cristiana? Come si esprime nel
credente, in chi vive la fede cristiana da “persona consacrata”? In che modo
risponde alla sua “vocazione” di “testimoniare la sua identità carismatica”?
Ovviamente la
prima risposta è che Dio stesso educa il discepolo al dialogo: Dio parla e
l’uomo ascolta, e viceversa. E’ l’imperativo centrale della Bibbia: “Ascolta,
Israele!”. Nel NT il discepolo di Gesù è descritto come “uditore della
parola” (Rm 1,5; 15,18;16,26). “Tutta la Scrittura è utile per
insegnare, convincere, educare…” (2 Tm 3,16). I carismi, che sono
costitutivi dei vari Istituti religiosi, sono “esperienze dello Spirito” (Mutuae
relationes n.11) che fanno incontrare Cristo “o mentre contempla sul
monte,o annunzia il regno di Dio, o risana i malati...” (Lumen gentium
n.46). Rintracciando nei testi della rivelazione quel determinato volto di
Cristo che esprime la caratteristica del proprio Istituto, la persona
consacrata assimila quei sentimenti del Signore che esprime poi nell’esercizio
della sua missione.
Tenere
in evidenza questa verità e di importanza fondamentale. Per una scelta del genere
non c'è altra giustificazione che Dio e il suo Cristo. In caso contrario ogni
qualvolta ci si viene a trovare di fronte a qualche cambiamento importante, a
qualche deficienza organizzativa, a qualche limitazione dovuta alla
insufficienza o alla rigidezza delle strutture, e, magari, a qualche obbedienza
particolare (vedi una figlia di S. Camillo che, invece di una corsia di
ospedale ha come luogo di “lavoro” la stanza dell’economato; o un
"missionario" inviato in una casa di formazione; o un
"eremita" nominato procuratore!), si entra in crisi e si mette in
discussione la vocazione stessa. "Noi vorremmo, dice Paolo VI ad un gruppo
di suore, che voi portaste ai quattro angoli del mondo la convinzione che una
professione religiosa impegna ad un livello di tale profondità, che i
cambiamenti di strutture, di attività, non hanno che una importanza relativa,
quand'anche se ne avesse a soffrire. L'essenziale è di conservare una coscienza
vivissima dell'appello di Cristo che sceglie egli stesso i suoi amici".
La vocazione religiosa nasce da un incontro cosi intimo e
personale con Dio e con il suo Cristo, che l'anima ne resta rapita. Si ripete
lo schema dell'innamoramento: il fedele si sente preso in un modo così profondo
che non può far altro che aderire a Lui solo e rinunciare, quindi, a tutto il resto (VC
19). Come l'innamorato dice alla sua amata: « tu sei la mia vita », così il
chiamato sente di poter ripetere nel modo più pieno le parole di Paolo: « per
me vivere è Cristo » (Fil 1,21). Propriamente parlando non si rinuncia a beni
così preziosi e necessari per essere più disponibili ad una determinata
attività, per quanto nobile essa sia, ma è perché si è rinunciato che si è più
disponibili, e si è rinunciato perché chiamati e presi da Cristo. La rinuncia a
tutto il resto non è che una conseguenza della esperienza diretta di Dio, della
conversione totale a Lui. Lo si vive nella fede, nella speranza, nell'amore,
come possesso supremo, come destino supremo.
La Suora
camilliana sa bene che il nucleo centrale della sua identità carismatica sta
nel “testimoniare l’amore misericordioso di Cristo”[1] verso coloro dei quali è “chiamata a
prendersi cura”. Si noti l’affermazione: “testimoniare l’amore
misericordioso di Cristo”: essa deve testimoniare e attualizzare
l’amore di un Altro, di Gesù Cristo. Il “carisma” infatti è “dono” che viene da
un Altro. A chi lo riceve è chiesto di accogliere e assimilare il sentimento di
un Altro, cioè di Gesù Cristo.
Il “proprium” quindi dell’aiuto che la Suora
deve offrire alla persona inferma sta nell’esprimere, nel testimoniare il
coinvolgimento di Dio, di Gesù Cristo in questo prendersi cura. Non è casuale
che l’apostolo Paolo, parlando della “consolazione” che deve offrire il
discepolo di Gesù, dichiari con forza che si tratta di “consolare chi è in
ogni genere di afflizione, con la consolazione con cui egli stesso è stato
consolato da Dio” (2 Co 1,3-4). E’ dunque quel tipo di “consolazione” che
la persona consacrata sperimenta nel suo incontro con Dio che ora deve
riversare su coloro dei quali è chiamata a prendersi cura.
Ma si badi
bene, questo riferimento all’agire di Dio, non significa la negazione di quanto
le scienze umane ci hanno detto. Piuttosto lo presuppone: il dinamismo
dialogico illustrato dalle scienze umane, va integrato nel dinamismo teologale.
Ed è proprio di quel dinamismo umano che Dio “ha bisogno” perché il suo aiuto
possa raggiungere la persona inferma. Dio agisce attraverso la mediazione di
chi si prende cura dell’altro. Il credente “sa” questa verità, a differenza
magari di chi non crede o non ci pensa…Tanto più lo “sa” la persona consacrata:
essa è consapevole del “tesoro” dell’operare di Dio che essa porta in
sé, nel suo “vaso di argilla” (2 Co, 4,7), ossia nella sua fragilità e
debolezza, nella povertà del linguaggio umano. La fede le attesta e la assicura
di questo misterioso operare di Dio in lei. Ed essa ne fa esperienza nei tempi
di preghiera e di contemplazione per trasmetterlo poi nell’esercizio della sua
missione.
Se infatti
nella Bibbia c’è un’affermazione riguardo alla “cura” della malattia, è appunto
la dichiarazione già anticotestamentaria che Dio è “il Signore che guarisce”[2], che “si prende cura”[3]: guarigione e cura vengono da Dio, il
quale si serve di mediatori e mediatrici, sia uomini che donne “di Dio”
(profeti) e sia “medici” come è detto nei libri storici e sapienziali[4].
Nel NT Gesù è
presentato anche come il terapeuta. Se le guarigioni sono considerate,
nei vangeli, come “miracoli”, “opere potenti” e dimostrano quindi la verità del
suo messaggio e della sua divinità, in effetti sono anche segni della sua
misericordia e compassione, segni della sua premura e tenerezza verso
l’umanità dolente. Questo significa, annota un eminente esegeta che i suoi
gesti di cura “hanno un legame più intimo con il Regno di Dio”, cioè con la
presenza, in lui, dell’agire salvifico e misericordioso di Dio[5]. L’uso più frequente, nei vangeli, del
termine terapeuein (curare) rispetto a iasthai (guarire) a
giudizio di molti esegeti vuol dire che Gesù oltre e più ancora del “guarire”,
si è “preso cura, ha curato, ha servito e onorato” le persone inferme.
L’insistenza
dei vangeli sul ministero di cura e di guarigione di Gesù, fa capire
l’importanza che la sua dedizione ha per affermare la presenza del Regno di Dio
nel mondo. E dunque l’esegeta ora citato può aggiungere: “tutte le persone
consacrate che operano nel mondo della salute vi possono trovare ispirazione e
incoraggiamento”[6].
La “con-passione”
che Gesù durante la sua vita pubblica dimostra verso i malati e i sofferenti,
raggiunge poi il vertice quando Gesù stesso è “nella sofferenza”, ossia nella
sua passione. La “preghiera sacerdotale” che leggiamo nel vangelo di Giovanni
(17,1-26), rivela che Gesù ha visto la sua passione come consacrazione: “per
loro io consacro me stesso” (17,19), ossia mi metto “a disposizione
dell’amore del Padre per amare fino alla fine” (Gv 13,1), che vuol dire: fino a
dare la vita per loro (Gv 15,13). Ed è questo il motivo che giustifica, per noi
Religiose camilliane, la professione del “IV voto”: servire i malati “anche con
rischio della vita”[7].
Ciò è possibile
solo e in quanto la Suora assimila davvero quest’atteggiamento di Cristo che
porta a vedere “Cristo presente nella persona inferma” - “l’avete fatto a me”
(Mt 25,36.40) - e “Cristo presente” in colei che presta il servizio nel suo
nome (Lc 10,29-37)[8].
Come
non esiste la vocazione cristiana in astratto, ma solo concretamente incarnata
nella vocazione specifica personale; così non esiste vocazione religiosa se non
concretamente incarnata in un carisma congregazionale che, a sua volta ciascuno
vivrà personalmente.
Ma
anche il carisma congregazionale avrà come contenuto proprio e centrale non un
particolare stile di vita fondato su determinate virtù oppure un servizio
particolare da compiere, ma la persona di Cristo. Se così non fosse non
sarebbe una vocazione cristiana che è sempre una chiamata a vivere di Cristo
per diventare ,come lui, figli, e così partecipare la vita trinitaria.
Il
Concilio ci aiuta a capire il carisma specifico di un Istituto quando,
riprendendo un pensiero già espresso da Pio XII nella enciclica Mystici
Corporis, afferma: “I religiosi pongano ogni cura, affinché per loro mezzo
la Chiesa abbia ogni giorno meglio da presentare Cristo ai fedeli e agli
infedeli, o mentre Egli contempla sul monte, o annunzia il regno di Dio alle
turbe, o risana i malati e i feriti e converte a miglior vita i peccatori, o
benedice i fanciulli e fa del bene a tutti, e sempre obbedisce alla volontà del
Padre che lo ha mandato” (LG 46
a).
Da
queste parole si deduce facilmente che il carisma di un istituto non consiste
semplicemente nel compiere certe determinate opere, ma nel ripresentare
Cristo che le compie. Si tratta, dunque, di una particolare conformazione a
Cristo che vive un qualche aspetto della sua missione. Si tratta, in altri
termini, di conformarsi a Cristo che in castità, povertà, obbedienza, predica
il Vangelo, converte i peccatori, accoglie i bambini, cura i malati, ecc…S.
Camillo non abbraccia la carità, ma Cristo nel malato; S. Francesco non abbraccia
la povertà, ma Cristo povero; S. Domenico non abbraccia la predicazione, ma
Cristo che predica. Tutti i cosiddetti Santi della Carità sono stati
conquistati da Cristo che si è mostrato loro in quel determinato atteggiamento
di servizio, se ne sono innamorati, si sono conformati a lui e hanno continuato
a mostrarlo presente nella storia, o meglio, Cristo attraverso di loro ha
continuato a rendersi visibilmente presente.
Ne
segue che non basta avere una particolare inclinazione a compiere un determinato
servizio umanitario, ad esempio la cura degli infermi, per parlare di vocazione
camilliana. Bisogna che ci sia una particolare attrazione di Cristo e verso
Cristo, innanzitutto.
Ma
non basta nemmeno che sia presente la chiamata a vivere in castità povertà
obbedienza come Gesù, per poter parlare di vocazione camilliana. E’ necessario
anche incontrare e partecipare Gesù nell’atteggiamento di compassione e
dedizione verso gli infermi. Chi non partecipa questo, forse può avere
vocazione per un altro istituto, ma non per le Figlie di S. Camillo. E’ questo
modo di amare di Gesù (la compassione!) che la Figlia di S. Camillo deve
partecipare e, poi, trasmettere al malato. Rimane vero che ella deve saper
vedere Gesù nell’altro, ma è soprattutto vero che ella deve andare con l’amore
di Gesù all’altro. Di questo amore deve sentirsi portatrice. Ma questo potrà
farlo solo se lo riceve da Lui attraverso una profonda comunione personale.
Capire questo è fondamentale. Prima che servire Gesù malato nell’altro, è
necessario portare Gesù misericordioso all’altro. E’ questo, in fondo, il
contenuto proprio della sua missione: portare Gesù e farlo conoscere come amore
misericordioso. E per far questo è necessario essersi conformati, quasi
identificati con Lui. Se viene a mancare questo, almeno come desiderio profondo
del cuore, si potrà, forse, essere brave infermiere, ma non vere Figlie di S.
Camillo.
E’
importante non confondere l’attività, nobile e importante, come la cura degli
infermi, con il carisma dell’istituto. Uno può avere delle doti che lo rendono
particolarmente adatto a compiere la professione di infermiere, ma questo non
significa che abbia la vocazione camilliana. Alla base di tutto ci deve essere
la conformazione a Cristo misericordioso e la passione a renderlo oggi
visibilmente presente nella storia.
A questo punto
sarebbe da aprire un nuovo paragrafo per rispondere alla domanda: come
rendere il “luogo di cura” spazio di “testimonianza del carisma del’Istituto”
là dove, insieme con le Religiose, operano anche laici, credenti o non?...In
tale contesto infatti diviene più difficile esprimere la “logica” propria della
testimonianza della VC, che è la gratuità. Oggi il mondo sanitario
diviene sempre più complesso e richiede competenze specifiche e un alto numero
di operatori sanitari che le Religiose da sole non sempre possono sostenere...
Ma questo è, appunto, un altro capitolo che non è possibile sviluppare in
questo intervento.
Roma, 16 novembre 2012
XXVII
Conferenza Internazionale del Pontificio Consiglio per la Pastorale della
Salute
[1] Costituzione delle
Suore Figlie di San Camillo, art. 1.
[4] 2 Re 1,1-17; 20,1-7;
5,1-19; Sir 1-15.
[5] A.Vanhoye, Vita
consacrata sanitaria, in: AA.VV., Dizionario di Teologia Pastorale
Sanitaria, Ed.Camilliane, Torino 1997, p. 1391.
[6] Id., p. 1392.
[7] Costituzioni delle
Suore Figlie di san Camillo, art. 12.
[8] Id., art. 13.
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